21/2000
Studi di Estetica
III serie
anno XXVIII, fasc. I

Emilio Mattioli
Presentazione

 

 

Questo numero monografico di “Studi di estetica” si propone di far conoscere la poetica del ritmo di Henri Meschonnic nella sua forza innovativa e nella sua dirompente carica critica.

Finora la cultura italiana non si è misurata, se non molto marginalmente, con questo filosofo del linguaggio che ha implacabilmente contrastato gli indirizzi formalistici dello strutturalismo, della semiotica etc., ma anche altrettanto duramente criticato la deriva ermeneutica e decostruzionista. Per rendersi conto della novità del tentativo di Meschonnic che ha ormai costruito un’opera critica grandiosa nel trentennio che va dalla pubblicazione nel 1970 di Pour la poétique a quella nel 1999 di Poétique du traduire, bisogna partire dalla concettualizzazione messa in atto dal filosofo, a cominciare appunto dal concetto stesso di ritmo.

“Io definisco il ritmo nel linguaggio come l’organizzazione delle marche attraverso le quali i significanti, linguistici ed extralinguistici (nel caso della comunicazione orale soprattutto) producono una semantica specifica, distinta dal senso lessicale, e che io chiamo la significanza, cioè i valori propri di un discorso e di uno solo. Queste marche possono collocarsi a tutti i ‘livelli’ del linguaggio: accentuali, prosodici, lessicali, sintattici. Esse costituiscono insieme una paradigmatica e una sintagmatica che neutralizzano precisamente la nozione di livello. Contro la riduzione corrente del ‘senso’ al lessicale, la significanza appartiene a tutto il discorso, essa è in ogni consonante, in ogni vocale che, in quanto paradigmatica e sintagmatica, produce delle serie. Così i significanti sono tanto sintattici quanto prosodici. Il ‘senso’ non è più nelle parole, lessicalmente. Nella sua accezione ristretta, il ritmo è l’accentuale, distinto dalla prosodia-organizzazione vocale, consonantica. Nella sua accezione larga, quella che io implico qui più spesso, il ritmo ingloba la prosodia. E, oralmente, l’intonazione. Organizzando insieme la significanza e la significazione del discorso, il ritmo è l’organizzazione stessa del senso nel discorso. E il senso essendo l’attività del soggetto dell’enunciazione, il ritmo è l’organizzazione del soggetto come discorso nel e attraverso il suo discorso.” (Critique du rythme. Anthropologie historique du langage, Lagrasse, Verdier, 1982, pp. 216-7).

Questa idea di ritmo che qui abbiamo citato nella definizione più ampia che Meschonnic abbia sviluppato, ha il suo presupposto in un celebre studio di Emile Benveniste, La nozione di “ritmo” nella sua espressione linguistica del 1951 che dimostra come nella filosofia ionica rhythmos non abbia il significato successivamente attribuitogli da Platone, connettendolo alla misura; negli ionici significa forma distintiva, figura proporzionata, disposizione e non è mai riferito al movimento regolare delle onde, il verbo rhein a cui rhythmos si connette indica il fluire del fiume e non si applica al movimento regolare delle onde del mare; il termine serve presso gli ionici “a descrivere delle ‘disposizioni’ o delle ‘configurazioni’ prive di stabilità o necessità naturali e derivanti da una sistemazione sempre soggetta a cambiamento.” (E. Benveniste, Problemi di linguistica generale, trad. di M. Vittoria Giuliani, Il Saggiatore, Milano, 1994, p. 396).

È, dunque, sulla base del ritmo eracliteo, non su quello platonico, sulla base del ritmo “senza misura” che Meschonnic costruisce la sua teoria. Il ritmo così inteso viene contrapposto alla metrica, ai suoi schemi astratti che prescindono dalla storia e dal soggetto, fa saltare la differenza fra verso e prosa, modifica il concetto di traduzione, modifica la nozione di oralità con l’introduzione dell’idea di scrittura orale, si oppone alla metafisica del segno, che ha introdotto nella cultura occidentale una serie numerosissima di dualismi a cominciare da quello fra significante e significato.

L’idea di ritmo che Meschonnic ha perseguito durante tutta la sua carriera di studioso tende a sottrarsi tanto al formalismo astratto quanto all’esasperazione individualistica dell’estetica idealistica. Il soggetto, infatti, che si inscrive nel discorso attraverso il ritmo, non è socialmente isolato, implica il tempo e la storia. È un ritmo analizzabile, ma non prevedibile, di volta in volta diverso, non perché espressione di una monade individualistica, ma proprio perché espressione del soggetto nella organizzazione del discorso. Chi leggerà i saggi di questo numero monografico si renderà conto che la proposta di Meschonnic è operativa, che esistono ormai dei risultati acquisiti con i quali bisogna misurarsi. Non si tratta, naturalmente, di imporre l’unicità di un metodo, ma di rendersi conto che siamo di fronte ad un tentativo originale di rimettere in movimento un campo di studi bloccato fra formalismi pseudoscientifici e arbitrarietà di interpretazioni illimitate. “Studi di estetica” certamente non assume in toto la teorizzazione di Meschonnic, per esempio le prese di posizione contro l’estetica, la retorica, la fenomenologia, ma riconosce la novità e la forza di una posizione critica della quale la cultura contemporanea ha un forte bisogno. Ignorare Meschonnic è una forma di pigrizia mentale, un modo di sottrarsi a domande inquietanti.

È necessario ancora un altro chiarimento preliminare su uno dei concetti chiave di Meschonnic: la nozione di poetica. L’accezione in cui Meschonnic la usa non è quella familiare ai lettori di “Studi di estetica” per i quali, secondo le parole di Luciano Anceschi, “la poetica rappresenta la riflessione che gli artisti e i poeti esercitano sul loro fare indicandone i sistemi, le norme operative, le moralità, gli ideali”, pur essendone contigua: “Essa è continua alle poetiche dei poeti che mantengono la tensione fra la pratica e l’intuizione teorica.” (Critique du rythme, ed. cit., p. 33).

“Porre la poetica come l’epistemologia della scrittura suppone nel suo principio che la scrittura sia un’attività di conoscenza specifica. Né gratuità né ornamento né ispirazione né riflesso, ma trasformazione della scrittura e dell’ideologia in e attraverso il linguaggio. È la sola giustificazione per questa attività apparentemente seconda, metalinguistica e ‘metatranslinguistica’, che è la poetica, come luogo di scambio e di interazione fra la pratica e la teoria della scrittura.” (Così in Pour la poétique II, Paris, Gallimard, 1973, pp. 21-22). Per Meschonnic la poetica è una “antropologia storica del linguaggio”. Diversamente dalla poetica dello strutturalismo che cercava di definire in termini generali e astratti la letterarietà, questa poetica si occupa dei modi di significazione dei singoli testi concreti. Lucie Bourassa lo ha messo bene in rilievo:

“Il passo seguente di Critique du rythme riassume in modo preciso quel che intende fare la poetica di Meschonnic dei testi letterari:

La critica del ritmo non consiste nel commentare un verso, o un’opera poetica, di cui esaurirebbe l’effetto o il valore, di cui direbbe il senso, se il verso o l’opera stessa non l’avessero già detto. Essa cerca come significhino, e la situazione di questo come. (Critique du rythme, ed. cit., p. 56).

Le due parole-chiave sono il ‘come’ e la ‘situazione’ del come, cioè i modi di significare di un testo, in quanto essi non esistono in modo puramente autonomo, ma si producono attraverso una enunciazione ed una rienunciazione che si iscrivono in una storicità.” (Lucie Bourassa, Henri Meschonnic. Pour une poétique du rythme, Bertand-Lacoste, Paris, 1997, p. 32).

La poetica di Meschonnic, ed è un suo grande merito, non è definibile in modo rigido, proprio perché la specificità dei modi di significazione deve essere determinata di volta in volta, ascoltando le trasformazioni che l’opera introduce nella lingua. Per questo aspetto un contatto con la neofenomenologia anceschiana che rifiuta la definizione essenzialistica dell’arte si pone. L’idea del ritmo come inscrizione della soggettività nelle opere poetiche, intese in senso largo, è un elemento essenziale di questa poetica. È la via per superare idealismo e formalismo, per ridare spazio alla storia, non allo storicismo, per individuare una specificità della letteratura (anche se Meschonnic non usa questo termine). Uno degli ambiti nei quali, come risulterà anche da questo numero monografico di “Studi di estetica”, la poetica del ritmo si è mostrata più efficacemente operante, è la traduzione. Si veda l’ultimo libro del 1999 di Henri Meschonnic Poétique du traduire, Lagrasse, Verdier, che è un’opera davvero senza paragoni in questo ambito; l’idea di tradurre il ritmo porta ad una impostazione diversa da quella tradizionale, ad una autentica rivoluzione copernicana. Ne risultano modificate idea della traduzione e storia del tradurre e vengono accantonati sprezzantemente una serie di luoghi comuni che la pigrizia mentale ha accumulato sull’argomento. La prima volta che mi imbattei in Meschonnic fu proprio occupandomi di traduzione e precisamente leggendo le sue Proposizioni per una poetica della traduzione, pubblicate nella traduzione di Mirella Conenna e Domenico D’Oria nel numero monografico de “Il lettore di provincia” (n. 44, marzo 1981), intitolato Per la traduzione; una di quelle proposizioni dice: “Una teoria della traduzione dei testi è necessaria, non come attività speculativa, ma come pratica teorica, per la conoscenza storica del processo sociale di testualizzazione, come trans-linguistica. Ogni unità trova il proprio significato nell’unità più grande che la include: una teoria della traduzione dei testi è inclusa nella poetica che è la teoria del valore e del significato dei testi” (p. 23; l’originale francese è stato pubblicato nel 1973 in Pour la poétique II). Dalle Propositions alla Poétique du traduire c’è una linea costante di approfondimento e di sviluppo. Sarebbe tempo ormai che una delle grandi opere di Meschonnic venisse tradotta in italiano e soprattutto discussa. Ci auguriamo, comunque, che questo numero di “Studi di estetica” risulti adeguatamente provocatorio. 

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