24/2001
Il
30 novembre e il 1° dicembre del 2000 nelle sale del Mauriziano, sede
dell'Istituto Banfi di Reggio Emilia, si svolse un seminario di
estetica, dal titolo Affettività, spazialità e forma artistica
a cui parteciparono studiosi italiani e stranieri di primo piano quali
Maria Villela-Petit (CNRS - Institut Catholique de Paris), Mauro
Carbone (Università di Milano), Elio Franzini (Università di Milano),
Baldine Saint Girons (Université de Paris X), Giovanni Lombardo
(Università di Lecce), Paolo Bagni (Università di Bologna), Emilio
Mattioli (Università di Trieste), Luigi Russo (Università di Palermo),
Lucia Pizzo Russo (Università di Palermo), Fernando Bollino (Università
di Bologna), e numerosi giovani ricercatori italiani. Le
due giornate di studio, che avevano l'ambizione di porsi in continuità
con la tradizionale attività di questo prestigioso Istituto, furono
impostate in modo tale da lasciare ampio spazio alla discussione,
permettendo così il confronto tra i partecipanti. Il vivace dibattito
che accompagnò ogni singola relazione e che animò la tavola rotonda
conclusiva - condotta da Lucia Pizzo Russo - su L'estetica tra
filosofia dell'arte e filosofia della sensibilità, fu
testimonianza non solo dell'altissimo livello degli interventi e della
viva attenzione del pubblico, ma anche dell'accettazione condivisa
della posta in gioco che il tema del seminario, magari in modo un po'
provocatorio, metteva sul banco della riflessione. Che
l'estetica costituisca, forse più di altri, un ambito disciplinare
alla continua ricerca del proprio statuto, non rappresenta certo un
segno di debolezza. La molteplicità e la diversità dei modi di
esperienza che in essa confluiscono costituiscono una ricchezza che si
sottrae ad ogni azione riduttiva, e che allo stesso tempo non può fare
a meno di sorprendere ogni qualvolta la si tenti di descrivere. La
recente riscoperta della componente aistesiologica dell'estetica -
riscoperta a cui "Studi di estetica" ha dato il giusto spazio -,
ha finito col far emergere questioni il cui approccio comporta, in una
relazione di reciprocità, la ridefinizione dell'estetica stessa.
L'affettività e la spazialità liberatesi da ogni ipoteca moderna, da
ogni schema dualistico di interiorità ed esteriorità, rappresentano
due luoghi problematici di cui non da molto è iniziata la ricognizione.
Siamo certi che questo lavoro ricognitivo, di cui i saggi che qui
presentiamo sono un significativo esempio, ha l'effetto di mostrare il
mobile intrecciarsi di momento aistesiologico e momento artistico in
seno all'estetica. In
questa direzione si muove la ricerca di Maria Villela-Petit, autrice del
saggio di apertura L'irriducibilità dello spaziale: fenomenologia
ed estetica: "per sapere se una filosofia post-cartesiana [.] è
suscettibile di assumere radicalmente il fatto dei fatti, quello della
nostra incarnazione, è necessario domandarsi come vi sia pensato lo
spazio nel suo rapporto con il tempo. Nel primato accordato al tempo
sullo spazio, andrebbe ravvisata [.] una persistenza surrettizia del
dualismo moderno che in qualche modo sminuisce lo spazio riferendolo al
corpo, alla materia e dunque al rapporto con la sola esteriorità ed
attribuisce invece il tempo all'anima". Strettamente connessa a
questo contesto teorico è la distinzione, risalente a Du Bos e a
Lessing, tra arti temporali e arti spaziali, distinzione già da tempo
messa in discussione dalla riflessione sull'arte, ad iniziare da
quella degli artisti stessi. Per usare un termine anceschiano, le
poetiche svolgerebbero dunque, nel quadro di una riconsiderazione della
spazialità, un ruolo decisivo. È anche e soprattutto attraverso di
esse che è possibile "scorgere lo statuto onto-fenomenologico
dell'arte". Fenomenologico perché l'analisi fenomenologica
husserliana, rivolgendosi verso gli strati più nascosti
dell'esperienza - la cui sensibilità rivela una carnalità
temporale e spaziale - permette di chiarire i processi creativi.
Ontologico perché pensare allo scarto tra ciò che è artistico e ciò
che non lo è, in una parola alla specificità dell'opera d'arte,
significa pensare all'evento manifestativo dell'opera "e ciò che
si dà a noi con e grazie all'opera". A
questo proposito decisiva è la lezione di Henri Maldiney: rielaborando
la nozione heideggeriana di Aperto al di là della nota diffidenza di
Heidegger nei confronti dell'esperienza sensibile, ci parla
dell'"aver luogo d'essere" dell'opera d'arte. Più che a
quella aristotelica di topos, Maldiney avvicina l'Aperto alla
concezione platonica di chôra; intermedia tra sensibile e
intelligibile, la chôra è all'origine della manifestatività
temporale-spaziale dell'arte, ed è dall'arte rivelata. Lo specifico
della forma artistica deve dunque essere ricercato nel fatto che
"l'arte testimonia in e per se stessa l'irriducibilità dello
spaziale in noi, nella nostra apertura all'essere attraverso le opere
in cui avviene come la rivelazione ed il rivelatore di tutto ciò che è,
ossia di tutto ciò che ha luogo". Testimonianza
di questa originaria spazialità è il celebre esempio proustiano della madeleine,
su cui verte l'intervento di Mauro Carbone Proust ai limiti della
fenomenologia: il risveglio del passato è inseparabile da un luogo
abitato, impregnato della presenza altrui. Quanto Proust descrive è
l'esperienza di una intuizione eidetica, che implica il venir meno del
limite tra soggetto e oggetto; esperienza attraverso cui il protagonista
della Recherche riassapora l'essenza stessa del paese in cui
trascorse le sue vacanze infantili e, allo stesso tempo, l'intuizione
di se stesso quale "paese tenebroso dove deve cercare e dove tutto il
bagaglio non gli servirà a nulla". Uno choc, secondo la nota
definizione benjaminiana, un evento improvviso e scardinante che Carbone
qualifica, seguendo Erwin Straus e Henri Maldiney, estetico-patico:
"l'incontro con il sensibile [.] non si dà mai senza una propria
tonalità affettiva, come del resto, in ambito fenomenologico, già
Husserl aveva avvertito". Tale choc "accendendo lo stupore
del nostro incontro col sensibile, provoca lo spossessamento del
reciproco distinguersi fra i poli attivo e passivo della percezione, ossia
mette in sospeso, insieme, l'abitudine e la volontà". A
concentrarsi sulla dimensione affettiva dell'esperienza è Elio
Franzini. In Significato trascendentale del sentimento e forma
artistica egli sostiene che fare del sentimento una affettazione
manieristica o l'espressione di una delicata interiorità toccata da
qualcosa di esterno, ci porterebbe a misconoscere il suo significato
trascendentale, la sua capacità di cogliere la radice vitale della
conoscenza. Il sentimento "è quella forza formativa che si traduce in
forma"; e parlare del sentimento significa "descriverlo nel suo
darsi". Come l'opera d'arte mostra, il mondo dell'affettività
è una dimensione estetica viva, ricca di significati in continuo
movimento, che non può essere pietrificata da uno sguardo mirante alla
chiarezza e alla distinzione. Lo stesso linguaggio concettuale deve la
propria vitalità a una radice sentimentale che, pur offrendosi
all'attività conoscitiva, non si lascia ridurre a nessuna delle sue
espressioni. "Analizzare
il sentimento significa invertire il processo gnoseologico descritto da
Leibniz (e da Baumgarten) e osservare non i limiti dell'esperienza
sensibile, bensì quelli del concetto; che non è in grado di penetrare
nella profondità del sensibile, nel radicale rapporto veritativo che si
instaura là dove il giudizio si fonda". Richiamandosi a Husserl e a
Merleau-Ponty, Franzini afferma che oltre all'intenzionalità
d'atto, caratteristica della conoscenza che tematizza e separa, vi è
una intenzionalità fungente (definita anche "sentimentale")
che opera al di qua della chiarezza e della distinzione. La filosofia
estetica diviene allora rivelazione del fungere dell'attività
conoscitiva, "esibizione dell'originario", nella consapevolezza
che tra esperienza e conoscenza vi è uno scarto che non può essere
colmato, misurato, dominato. Ciò non significa cedere alla deriva
irrazionalistica ma, semmai, riconoscere che vi sono due attività
legate da un rapporto dialogico: quella del sentire originario e quella
che rivela l'affettività dell'atto conoscitivo. Tale dialogo è
strettamente connesso all'intersoggettività che l'orizzonte
affettivo, nella sua anonimia, esige e vivifica. La simbolicità delle
forme a cui l'originaria attività del sentimento dà luogo rivela
dunque una costitutiva dialogicità "al tempo stesso estetica,
interpersonale e comunitaria". Ma
il rischio che tale dialogicità si sclerotizzi in aridi schemi,
rendendo il simbolo facilmente trasportabile in significati fissi, e che
quell'originaria attività che è il sentimento venga devitalizzata in
atteggiamenti ripetitivi, non è mai del tutto scongiurato. Come ben
mostra Baldine Saint Girons nel suo Le trasformazioni del sublime e
l'esigenza di sublimazione, "la dinamica esplosiva del sublime e
delle sue trasformazioni rimette in causa ciò che noi chiameremo per
comodità il mondo dei valori, vale a dire dei beni presunti stabili e
definitivamente acquisiti". In stretta relazione con ciò che la
tradizione retorica e filosofica ha elaborato in epoche differenti sotto
il titolo di sublime, vi è la sublimazione che l'autrice, a partire
di una originale lettura della psicoanalisi freudiana e lacaniana,
interpreta come il principio ontologico di "modellamento o
reinvestimento di significati", attraverso cui l'essere umano
reinventa la realtà. La vera posta in gioco sarà allora di comprendere
il rapporto reciproco di sublime e sublimazione, mediante una analisi
che sappia tenere insieme la ricerca dell'origine con quella degli
effetti di riconfigurazione. Analisi che porterà da un lato al
superamento della consueta distinzione di percetto, connesso
all'esteriorità, e affetto, connesso all'interiorità, verso la
scoperta di una spazialità abitativa continuamente ri-costruita, e di
una estimità già da sempre aperta all'altro da sé;
dall'altro lato a una ridefinizione dell'estetica attraverso una
filosofia del linguaggio e una filosofia delle passioni orientate da una
vichiana ars inveniendi. La
Saint Girons intravede tre tipi di relazione sublimazione-sublime: in
primo luogo secondo la prospettiva tradizionale la sublimazione è
intesa principalmente come l'effetto del sublime. Il sublime "mi
sublima", ha il potere di metamorfosarmi e di proiettarmi verso una
vita completamente nuova, tutta da inventare. In secondo luogo,
all'interno di una prospettiva psicoanalitica, la sublimazione è
condizione di possibilità del sublime, sia che abbia di mira la
normalizzazione, o adattamento sociale del soggetto, sia che si orienti
verso la creazione. La sublimazione esprimerebbe la tensione del
desiderio verso un oggetto inafferrabile, la Cosa lacaniana, che
rappresenterebbe "l'inumano, l'ingiustificabile e
l'impensabile". Rimane una terza opzione: "la sublimazione viene
allora assimilata all'operazione del sublime, in quanto ne costituisce
il principio direttivo e nascosto: la vera ratio essendi".
[.] Il sublime in tal modo si diluirebbe nell'esistenza umana per
costituire una delle sue possibilità permanenti". Il
ruolo decisivo assunto dalla riflessione sul linguaggio in merito alle
tematiche in discussione emerge chiaramente nello scritto di Giovanni
Lombardo Movimento del linguaggio e tecniche traspositive: il
contributo della retorica antica. La teoria della Sprachbewegung
di Friedmar Apel, una delle voci più originali dell'attuale dibattito
sulla traduzione, vede nella distanza tra il "vecchio" e il
"nuovo" un processo dinamico che fa del linguaggio un movimento
incessante, uno sforzo mai concluso di ri-orientamento. Se è vero che a
ispirare la teoria di Apel è la storia moderna e contemporanea della
traduzione e, in particolar modo, la concezione romantica del tradurre
come compito inesauribile, è anche vero che è possibile rintracciare
nell'antichità classica una "preistoria", ancora poco conosciuta,
di tale teoria. Già
presso i greci l'idea che il linguaggio "si muova" entro uno
spazio formale organizzato, è molto viva. Secondo Democrito, tra la
struttura del linguaggio e la struttura del mondo vi è una sorprendente
analogia: lettere e atomi sono "ritmici" in quanto hanno a che fare
con lo scorrimento. Anche il termine ermeneia, indicando l'atto
del mediare un certo pensiero o un certo stato interiore attraverso un
certo linguaggio, sembra suggerire una immagine di movimento, di
passaggio, di transito. Ma l'idea di linguaggio in movimento più
vicina alla traduzione - che i greci, come sappiamo, praticarono poco
e su cui ancor meno rifletterono - è sicuramente riconducibile alle
tecniche traspositive. Riscrivere in altra forma il passo di un'opera
famosa richiedeva la capacità metafrastica di manipolare il linguaggio.
Manipolazione che poteva rimanere aderente all'originale o
allontanarsene, sortendo un più spiccato effetto estetico, come ben
compresero i romani. "Non meno dei moderni teorici della Sprachbewegung,
Cicerone, Orazio, Quintiliano e altri scrittori di Roma antica sanno
bene che, nell'esperienza del tradurre il "movimento del
linguaggio" si rivela come un processo problematico: perché la
dialettica di appropriazione ed estraneamento, accende una complessa
dinamica traspositiva, per la quale vengono a dislocarsi non solo forme
linguistiche, ma anche e soprattutto significati storico-culturali e
valori estetici". A
far propria l'interrogazione sull'arte implicita nella titolazione
del seminario è l'ultimo intervento, Articolazioni della bellezza
poetica: la materia del fare nelle arti poetiche mediolatine, di
Paolo Bagni. Le arti poetiche latine medievali costituiscono una "vera
e propria provocazione teorica di una teoria letteraria, intesa come
segmento e modalità di un'estetica": il loro carattere pragmatico
- nel senso di un insegnare a fare - potrebbe in effetti escluderle
da una teoria. Ad essere qui in gioco è la concezione stessa di teoria
che da concatenazione sistematica di "teoremi" diviene qui
"risposta, o tentativo di risposta, a un problema", "istanza di
riflessione intrinseca al movimento stesso del fare". Fondamentale si
rivela, ancora una volta, la nozione anceschiana di poetica, come
riflessione orientata al fare che ha un proprio indice di verità. Le
"articolazioni della bellezza poetica" e la "materia del fare"
- di cui Bagni fornisce alcuni significativi esempi - indicano come
all'interno dell'ars (ars intrinsecus) si avvii un
processo di definizione dell'opera poetica, come composizione e
costruzione di qualità diverse, che rientra nella costituzione del
"campo letterario". "La netta inclinazione pragmatica delle artes
disegna così una metodologia del fare: in cui via via si
determina l'ambito del dicibile, ciò che questa cultura poetica
descrive e pensa come materia del dire; un "dicibile"
determinato sia in relazione all'articolarsi, nell'opera, di aspetti
e momenti partitamene valorizzabili come qualità dell'opus,
sia in relazione al concatenarsi delle operazioni messe in atto per
conseguire tali qualità, la cui valorizzazione può fungere da cifra
simbolica dell'integrazione della poesia e del fare poesia
nell'orizzonte del sapere". |
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